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lunedì 14 novembre 2016

How No Man Was Written #1: La città e i suoi abitanti



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Seconda parte di questa autolettura di No Man, una specie di diario al confine tra il making of e l'onanismo puro.

Dopo aver un po' vaneggiato (qui) su quello che c'era prima del libro e sui suoi primissimi passi, rendiamo questa rubrica un po' più concreta.

In questo post si parla della città e di alcuni dei suoi abitanti. Ovviamente, eviterò spoiler, consiglio però di non leggere questo post se non si è arrivati almeno a pagina 45.



Goodmorning


È la città di mia invenzione che fa da sfondo alla vicenda, ma che è in realtà la vera protagonista. Quella di inventarsi una città, è un'idea che hanno usato già altri molto più bravi di me e prima di me. L'ho fatta mia soprattutto dopo aver letto da qualche parte che Will Eisner considerava il suo The Spirit come una specie di grande contenitore in cui ficcare tutte le idee che gli passavano per la testa. Con la mia città ho cercato di fare qualcosa di simile: crearmi un mio contenitore, una trappola piena di insidie, in cui far muovere e inciampare i tanti personaggi che mi nascevano nella testa. Inutile nasconderlo, l'obiettivo è continuare a usare questo luogo immaginario per narrare ancora questo mondo, di cui No Man rappresenta solo un frammento, creando dunque intorno a Goodmorning una storia più grande, una continuity di eventi e temi. Dando allo stesso tempo autoconclusività a ogni storia.




Io negli Stati Uniti non ci sono mai stato e non ho sentito il bisogno di andarci per raccontarli. Il motivo è semplice: io non racconto gli Stati Uniti per quel che sono, io racconto dal mio punto di vista l'immaginario degli Stati Uniti che ci viene da un secolo di film, fumetti, serie tv, libri. Se proprio vogliamo definire Goodmorning, è qualcosa tra la Sin City di Frank Miller, la Baltimora di The Wire e il New Jersey dei Soprano, con una spruzzatina di Gotham City, della New York cinematografica-televisiva e di Scampia.
Della città sono forniti vari riferimenti geografici: l'East-side, il west-side, Nolan Park, il Puttanatoio, i  Cancelli, per dirne alcuni. Non c'è una mappa né ci sarà, la mia è una città mobile, elastica, una geografia liquida, in continuo mutamento, aggiornamento, dove posso sempre inserire nuove cose. È un po' come la Springfield de I Simpson, dove in una puntata il bar di Boe è a duecento metri da casa di Homer e in quella successiva è a un paio di isolati. In un episodio sembrano esserci 150 abitanti in quello successivo varie decine di migliaia. Se a qualcuno andasse di disegnarla una cartina di Goodmorning, sarei molto curioso di vederla, soprattutto per capire come viene percepita.



La città viene presentata nel Prologo. Leggendolo, qualcuno potrebbe immaginarsi che l'abbia creata a tavolino con delle idee precise sui vari luoghi e sulle sue caratteristiche sin dall'inizio. Non è andata così: il prologo è tra gli ultimi capitoli che ho scritto - quando le cose erano finalmente diventate un po' più chiare anche a me - e ha una doppia funzione.
La prima, com'è facile intuire, è presentare i luoghi della vicenda, dare delle informazioni minime sulla sua storia, la sua struttura e la sua società.
La seconda funzione, forse anche più importante, è quella di chiarire sin dalle prime 3 pagine al lettore cosa gli toccherà. Nel prologo non mi sono risparmiato, sia per mettere le carte in tavola sin da subito che, ovviamente, per cercare un inizio ad effetto. Quale effetto? Quello del disgusto. 

Negli anni in cui scrivevo Goodmorming mi hanno molto affascinato alcuni artisti come Jeremy Mann, Kim Cogan, Giulio Rincione, Cosimo Miorelli, che comunicano soprattutto grazie ai colori, impressionando l'occhio prima ancora che la mente ne decifri il contenuto.
Negli stessi anni ho letto e guardato ad alcuni autori pulp e hard boiled degli anni '30-50, che mi hanno insegnato che il lettore va preso a pugni nello stomaco, che devi fare di tutto per bucare la pagina, anche a costo di essere poco elegante: la letteratura non è un pranzo di gala.
Nel mio prologo (e in generale in No Man) ho provato a mischiare le cose e ottenere un effetto simile: G
oodmorning deve disgustare, sin dall'inizio, non deve essere minimamente riappacificante. Un determinato registro linguistico è il mio strumento. La città è un inferno in terra, anche buffo e divertente in certe occasioni (è il paradiso ad essere una palla), ma dall'inizio alla fine la mia intenzione è stata (oltre la semplice e sempre predominante volontà d'intrattenere il lettore con una storia) quella di mettere a poco a poco nella testa di chi legge una serie di domande riguardanti la città e i suoi (poveri?) diavoli e metterlo di tanto in tanto a disagio.




Personaggi
La città è protagonista indiscussa, certo, ma senza personaggi No Man sarebbe stata una guida turistica e non un romanzo. Alla fine ne è uscito un romanzo corale, con alcuni personaggi - anche molto importanti ai fini narrativi - per i quali sono state spese una manciata di righe appena e che forse torneranno in futuro e forse no. All'inizio però ci dovevano essere solo tre protagonisti: il detective James Rufini, lo stalker Kirk Wayne e il tossico Jackie Miller. Poi si sono aggiunti altri 3-4 protagonisti e una mezza dozzina di comprimari.

Quasi tutti i nomi contengono delle citazioni, dei giochi di parole o dei riferimenti:
Il nome di Kirk Wayne è un mash up tra Kirk Langstrom (Man-Bat) e Bruce Wayne (Bat-Man), due poli opposti che finiscono per annullarsi e generare l'ignavia fatta persona. Bruce Wayne e John Wayne, inoltre, sono due dei principali simboli della virilità americana, che si concretizza soprattutto nella capacità di trasformare la volontà in azione: Kirk Wayne è la cosa più lontana da questi.
Jackie Miller: perché all'inizio l'unica cosa che sapevo di questo personaggio è che doveva aveva i capelli come quelli di Benicio del Toro nella parte di Jackie Boy in Sin City. Questo per quanto riguarda la prima parte del nome. Il cognome viene invece dalla volontà di omaggiare Frank Miller: ci sono mille motivi per cui omaggiare questo autore, sceglietene uno a caso e farete comunque centro. È l'unico personaggio ad avere nella mia testa una precisa fisionomia: è quella di James Ransone nella parte di Ziggy Sobotka in The Wire.
John Howard, invece, è un omaggio allo scrittore Robert E. Howard. Il mio Howard è il personaggio più kick-asser del romanzo; il vero Howard è stato uno dei più grandi kick-asser della letteratura.
E così via... inutile svelarli tutti.




Domanda da un milione di dollari: quanto c'è di me in questi personaggi bastardi fino al midollo, spietati, pornomani, erotomani, vigliacchi, patetici, viscidi, odiosi, malinconici, bisognosi d'affetto, a tratti umani e a tratti disumani? 
Risposta: nulla e tutto. Sono in ognuno di questi personaggi e non sono nessuno di loro. Non mi identifico pienamente in nessun personaggio e al tempo stesso nessun personaggio può essere separato da me e dalla mia persona. Jackie Miller è la mia dipendenza da un milione di cose; Rufini sono io tra vent'anni se un paio di cose che fino ad ora mi sono andate bene mi andranno male; Howard è il mio anelito (recondito e umano, forse la cosa più umana che tutti ci portiamo dentro) alla determinazione e alla sopraffazione altrui; Kirk Wayne è la mia vigliacchieria; il Barbone sono io nei momenti buoni e così via...

Per oggi è tutto. 
Grazie a chi ha letto fin qui, lo dico sinceramente.
Appuntamento alla prossima settimana con un nuovo post in cui vi parlerò di influenze fumettistiche, musicali e di violenza.

Sayonara, Man! 


***
Le immagini, nell'ordine:
- Jeremy Mann, Cityscape
- Cosimo Miorelli
- Baltimora in The Wire
- Kim Cogan, Surf Motel 
- Giulio Rincione, vignetta tratta da Paranoiae, si ringrazia l'autore per la disponibilità
- James Ransone nel ruolo di Ziggy Sobotka in The Wire


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