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mercoledì 23 marzo 2016

[RECENSIONE] Regali da uno sconosciuto: un onesto esordio



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Regali da uno sconosciuto (The Gift, 2015) è l’interessante film d’esordio di Joel Edgerton, prodotto dalla Bloumhouse.

Dopo Whiplash (2014, vincitore di tre premi oscar), la Blumhouse si conferma con questo film come una delle realtà indipendenti più interessanti del panorama statunitense, capace di realizzare validi prodotti con budget che raramente superano i cinque milioni di dollari [1]. La dinamica casa di produzione fondata da Jason Blum da un lato produce horror redditizi ma di discutibile qualità come le serie Paranormal Activity o Insidious, dall’altro riesce a sfornare piccoli gioielli come il succitato Whiplash o film interessanti che puntano tutto sulla loro scrittura, affrontando sfide anche non facili, come Regali da uno sconosciuto, Creep o Unfriended; riesce a scoprire e lanciare talenti esordienti o sconosciuti oppure a portare nella propria orbita registi come Eli Roth, Rob Zombie e M. Night Shyamalan, talvolta alla ricerca di seconde possibilità; è riuscita inoltre anche a intessere relazioni con realtà di spicco come la HBO con cui ha co-prodotto il film per la tv The Normal Heart, vincitore di un Golden Globe, un Emmy e due Critics’ Choice Television Awards.

In Italia è stato distribuito dalla Koch Media che, a dispetto della sua ancora limitata capacità di penetrazione del territorio, ha un catalogo sempre più interessante.

Joel Edgerton è per questo film regista (al suo primo lavoro), sceneggiatore (terzo lungometraggio) e attore (dopo molti ruoli minori e due di spicco in due bei film come The Warrior e Animal Kingdom). Dopo un lungo periodo di progettazione, due anni e mezzo che l'hanno impegnato in questo e altri progetti, il film ha avuto una rapida traduzione in realtà, con appena venticinque giorni di riprese.
Si presenta come un prodotto solido, con una regia pulita, mai confusionaria, senza eccessivi fronzoli ed efficace.
La sceneggiatura è ben pensata e, pur presentando qualche piccola sbavatura, dotata di una certa capacità d’impatto e di abilità nel giocare con lo spettatore.
Il punto forte del film è la costruzione dei personaggi che compongono l’ambiguo triangolo – con una buona interpretazione di Jason Bateman, Rebecca Hall e del già citato Edgerton - nel quale si dipana la trama e che fa da calamita emotiva per lo spettatore. Il film è tutto pensato per portare continuamente il pubblico da una parte all’altra dei due schieramenti, da quello dell’amorevole coppia a quello dello strambo Gordo e viceversa, rovesciando di volta in volta aspettative e convinzioni, portandolo a patteggiare di volta in volta per uno dei personaggi. Personaggi in chiaroscuro, ambigui, inquietanti, odiosi eppure non monodimensionali, capaci di far interrogare il pubblico sulle loro ragioni ed eventualmente giustificarne le azioni. Edgerton è bravo nel disseminare gli indizi a poco a poco, tenendo alta l’attenzione dello spettatore e alimentando il lui una sana voglia di scoprire le ombre dei due personaggi principali. Il risultato finale gli fa perdonare qualche forzatura nel corso della vicenda

Il film si inserisce in quello che negli Stati Uniti è diventato negli ultimi anni un vero e proprio filone, in cui è stato riportato all’attenzione un tema che da un quarantennio è oggetto a fasi alterne delle telecamere, forse a partire dal Carrie di Brian De Palma (1976) [2]: quello del bullismo liceale, delle sue conseguenze, della sua capacità di trasformare “bravi ragazzi” in carnefici in maniera “banale”, delle dinamiche del gruppo sul singolo e della eventuale trasformazione della vittima del passato nel carnefice del presente. Il caso commerciale horror della scorsa stagione cinematografica, Unfriended, ne è stato un esempio; la seconda stagione della serie tv American Crime (di cui vi ho parlato qui), di ben altro registro stilistico, ne è un altro esempio. Ma gli esempi sono molti, a testimonianza di quella che negli States è una vera e propria piaga sociale: il suicidio è la seconda causa di morte tra i 15 e 24 anni, la gran parte di questi casi sono da collegare a episodi di bullismo e cyberbullismo.  



Eduard Grau (direttore della fotografia), Danny Bensi e Saunder Jurriaans (colonna sonora) e Luke Dollan (montaggio) hanno eseguito il loro lavoro in maniera piuttosto sobria, aderendo agli stilemi del genere, senza scivolare in inutili virtuosismi, con una performance che con ogni probabilità non entrerà nella storia del cinema, ma che contribuisce a confezionare un prodotto estremamente godibile, in grado di superare la sfida di rendere accattivante un film di fatto girato con tre attori e una casa.

Concludendo, un buon film, molto interessante per alcuni aspetti, che sa dialogare con la tradizione del proprio genere (quella degli anni ’80-’90, più che quella hitchcockiana) e soprattutto sa intrattenere, grazie a una buona scrittura e una buona regia che riesce a trasformare un film a basso costo in un prodotto più che dignitoso, all'interno di un modello produttivo esportabile. Alla base di un buon film c’è la scrittura, e quella in termini materiali non costa niente. 

[1] Solo 6 film su 56 hanno superato questa soglia. Gli altri sono stati prodotti con budget a partire da 15,000 dollari.
[2] Non a caso, Stephen King, che di Carrie ne è lo scrittore, è stato tra i primi a lodare questa pellicola.

È tutto.
Come sempre, grazie per l'attenzione.
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Alla prossima.


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