Attenzione, il post
che segue contiene SPOILER
Introduzione
It Follows è il secondo lungometraggio di David
Robert Mitchell (classe 1974). La carriera di questo regista è facile da
riassumere: prima di questo film ha posto la sua firma solo su un corto del
2002, Virgin, e su un lungometraggio
del 2010, The Myth of the American
Sleepover. Come i precedenti, It Follows è un film realizzato con poco
(2 milioni di dollari) e non gode in un primo momento di una buona distribuzione. Presentato nel 2014 al festival di Cannes e poi ad altre manifestazioni europee come Torino, arriva nelle sale americane nel marzo dell’anno successivo distribuito dalla Radius-TWC (sussidiaria della The Weinstein Company), mentre in altri paesi come l’Italia ad oggi non è mai stato distribuito (è previsto per il prossimo luglio, distribuito da Midnight Factory). Economicamente, considerata la sua natura Indie, il film ha avuto successo, con un incasso di 20 milioni di dollari. La critica e la rete internet ne hanno poi ulteriormente favorita la diffusione. Quentin Tarantino in persona, pur sottolineando qualche criticità, lo ha lodato durante un’intervista come uno degli horror più interessanti degli ultimi anni [1]. I paragoni con John Carpenter non sono mancati, forse a torto, forse a ragione, forse troppo precocemente. Quelle che seguono sono riflessioni, più o meno sistematiche, su It Follows, focalizzate su alcuni aspetti a dispetto di altri.
(2 milioni di dollari) e non gode in un primo momento di una buona distribuzione. Presentato nel 2014 al festival di Cannes e poi ad altre manifestazioni europee come Torino, arriva nelle sale americane nel marzo dell’anno successivo distribuito dalla Radius-TWC (sussidiaria della The Weinstein Company), mentre in altri paesi come l’Italia ad oggi non è mai stato distribuito (è previsto per il prossimo luglio, distribuito da Midnight Factory). Economicamente, considerata la sua natura Indie, il film ha avuto successo, con un incasso di 20 milioni di dollari. La critica e la rete internet ne hanno poi ulteriormente favorita la diffusione. Quentin Tarantino in persona, pur sottolineando qualche criticità, lo ha lodato durante un’intervista come uno degli horror più interessanti degli ultimi anni [1]. I paragoni con John Carpenter non sono mancati, forse a torto, forse a ragione, forse troppo precocemente. Quelle che seguono sono riflessioni, più o meno sistematiche, su It Follows, focalizzate su alcuni aspetti a dispetto di altri.
Una celebre scena tratta da "Il giorno degli zombi" di George A. Romero (1985). Effetti speciali di Tom Savini. |
L’orrore indiziario e
il non finito
L’horror è spesso associato a interiora, budella e squartamenti vari.
Qualche volta è capitato anche a me di dire sconsolato dinanzi a un film “eh,
ma non fa vedere niente”. È un’associazione sbagliata: quello è splatter, e lo
splatter è solo una delle tante declinazioni possibili della materia
orrorifica. Lo splatter ha conosciuto però negli anni ’80 una proliferazione
incredibile, i massimi maestri del genere horror si sono immersi nel suo mare
di sangue, e come sottogenere ebbe la capacità d’intercettare la grande
rivoluzione del vhs. Ciò non vuol dire che da allora ci sia solo splatter, anzi
al contrario lo splatter ha avuto una stagione iniziata negli anni ’80 e che si
è chiusa orientativamente a metà degli anni ’90. Scream di Wes Craven
(1996), che è forse l’horror più significativo degli anni ’90 e certamente
quello che più ha influenzato altri registi, di splatter ha ben poco. Lo splatter ha però condizionato l’horror
in una maniera ben precisa: alzando da un lato il livello del mostrabile e dall’altro
imponendo la “visibilità” dell’orrore. L’orrore deve essere mostrato, non
nascosto. Non è sempre stato così. C’è innanzitutto da dire che l’esposizione dell’orrore è qualcosa che,
come ogni fenomeno culturale, ha una matrice sociale forte: l’orrore
comincia ad essere mostrato senza remore dalla
fine degli anni ’60, in coincidenza con il Vietnam e con i reportage di
guerra che mostravano senza filtri masse di civili trucidati, i morti sui campi
di battaglia, gli effetti del napalm. Tom
Savini, forse il più grande e rivoluzionario make up artist del genere ha sempre affermato che il Vietnam (dove
fu fotografo) è stata la sua principale scuola. Ancora l’orrore, che il più
delle volte si traduce in ferite e sbudellamenti, trova modo di emergere in
coincidenza con la rivoluzione sessuale e dei corpi, con la sexploitation
cinematografica. Sesso e violenza
condividono spesso lo stesso cammino, ma su questo torneremo più tardi. Ma
soprattutto l’orrore comincia a poter essere mostrato per un cambiamento interno all’industria cinematografica: nel 1968, il Motion Picture Production Code del 1934
fu rimpiazziato, dopo una serie di decisioni della Corte Suprema, dal meno
severo in fatto di censura Motion Picture
Association of America film rating system. Dopo quella data i film di ogni
genere poterono mostrare cose inimaginabili solo poco anni prima: La notte dei morti viventi di George A. Romero (1968) beneficiò di
tale cambiamento – più di ogni altro film, perché uscì praticamente in un
momento di vuoto legislativo – o si guardi ad esempio a come un film come Soldato Blu di Ralph Nelson (1970) con
un’ondata di violenza scardinò sotto molti punti di vista il più iconico dei
generi cinematografici americani, quello western. Oggi probabilmente il livello
del mostrabile è ai suoi massimi storici, spinto in alto in particolare dai
prodotti televisivi, su tutti quelli targati HBO. Ma mostrare l’orrore non è
l’unico modo per raccontarlo e per indurlo. Per decenni l’orrore è stato raccontato per via indiziaria, suggerito
più che palesato.
Scena tratta da "Sentieri selvaggi" di John Ford (1956) |
In virtù di tale logica indiziaria, il genere horror ha
valorizzato ad esempio l’uso delle musiche. Permettetemi di tirare in ballo John Ford, che di horror non ne ha
fatti ma che da attento regista quale fu ne rubò diversi elementi da usare nei
suoi western, e che a sua volta con la sua cinematografia ha influenzato più di
un maestro dell’orrore, come ad esempio John Carpenter. In Sentieri Selvaggi (1956) vi è una scena in cui i due protagonisti
Ethan Edwards (John Wayne) e Martin
Pawley (Jeffrey Hunter) rientrano a
casa dopo aver dato la caccia agli Indiani e la trovano distrutta e bruciata da
questi ultimi. La famiglia è stata massacrata. Siamo nel ’56, Ford non può e
non vuole mostrarci i cadaveri dilaniati, le viscere, i loro occhi spenti,
decide invece di inquadrare i volti dei due protagonisti e attraverso i loro
volti, le loro espressioni di disgusto suggerirci l’orrore, confidando nel
fatto che l’immaginazione dello spettatore una volta indirizzata nel modo
giusto, si spingerà più in là di quanto possa fare l’obiettivo, del sangue
artificiale, di un po’ di trucco. Suggerire
l’orrore, instaurare un dialogo con il pubblico, puntare alla sua suggestione e
mettere dalla propria parte l’alleato più prezioso di ogni narratore:
l’immaginazione di chi usufruisce dell’opera. It Follows si apre con una scena estremamente efficace che combina
perfettamente il metodo “dell’orrore indiziario” e quello “dell’orrore
palesato”. Una ragazza corre fuori casa guardandosi intorno, è terrorizzata,
non è notte siamo all’imbrunire e non è inseguita da nessuno. Le prime
inquadrature fanno pensare che siamo di fronte a uno slasher movie, ma non c’è alcun serial killer armato di
coltellaccio all’inseguimento. Il pericolo sarà nella casa. Il padre della
ragazza esce nel vialetto e cerca di calmarla, ma lei rientra nella stessa casa
da cui è fuggita. Il pericolo non è nella casa. Esce ancora una volta, prende
l’auto e fugge. Guida fino a una spiaggia, continuando a guardarsi intorno
mentre è al volante. Sola in riva al mare, chiama il padre “Papà, ti voglio
bene. Voglio che tu sappia quanto ti voglio bene. Papà, mi dispiace se sono
stata una stronza con te, qualche volta. Lo so che lo sono stata. Sappi che ti
voglio bene, ok? Vi voglio bene a entrambi.” Lo spettatore è portato dal
dialogo a immaginarsi un suicidio, poi lo stacco netto e brutale del montaggio
smentisce anche questo indizio e ci mostra la ragazza morta, una gamba spezzata
e in posizione innaturale, un piede mancante, sangue.
Il regista fornisce allo
spettatore tutta una serie di falsi indizi, sfrutta l’immaginario collettivo
che lo spettatore condivide per fargli immaginare vari tipi di pericolo,
smentirli, suggerirne altri, fino a mostrargli l’orrore in maniera palese: i
suoi effetti però, non la sua fonte. Qui c’è un'altra intuizione del regista. Viviamo in un epoca in cui tutto è
conosciuto, già visto, ogni cosa è visibile, tutto è in comunicazione
istantanea, ogni cosa può essere conosciuta con un paio di click, tutti si
sentono in grado di comprendere il mondo in cui vivono, in ogni suo aspetto: l’orrore è indotto innanzitutto privando lo
spettatore della conoscenza. Non è un tecnica nuova, sia chiaro. Pensate
alla classica porta socchiusa mostrata in mille film: a farci paura è il fatto
di non sapere se lì dietro ci sia o meno l’assassino. Qui però la privazione
della conoscenza è portata ai massimi livelli e usata con maestria. Nella prima
parte del film non sappiamo quale sia la fonte del pericolo; poi veniamo a
sapere che è una maledizione trasmessa attraverso il sesso (che è anche l’unico
mezzo per liberarsene), per cui strani esseri inseguono il malcapitato: lo
spettatore però non sempre è in grado di vederli, così come non lo sono i
personaggi non colpiti dalla maledizione, quindi l’orrore potrebbe essere in
ogni stanza, in ogni momento, senza che lo spettatore lo sappia. Si aggiunga a
ciò il fatto che questi inseguitori (i follower
del titolo) sono in grado di assumere varie sembianze, anche comuni o note
alla vittima e che quindi non possono essere riconosciuti, aggiungendo a ciò
ulteriore incognita e suspense per lo
spettatore.
Il film è stato criticato per la sua indeterminatezza, per non aver
chiarito la natura della maledizione, la sua ragione, i suoi meccanismi. Pare
che a tal proposito sarà prodotto un sequel
in cui verranno sciolti alcuni dubbi. In realtà una spiegazione, una razionalizzazione, depontenzierebbe la macchina
narrativa. Il film, nel suo svolgimento e nel finale, ricorda la tecnica
scultorea michelangiolesca del non
finito: alcuni elementi sono solo
abbozzati, la loro spiegazione rimandata, indeterminati in modo tale da
impostare un dialogo che permetta all’immaginazione e all’autosuggestione dello
spettatore di scorrere libera, potente, di completare da sé quanto lasciato
fuori dall’occhio della telecamera. Ripeto, nell’orrore, reale e irreale,
non spaventa ciò che è, ma ciò che può essere: come dicevo, non è una porta
socchiusa a spaventare, ma ciò che potrebbe esserci dietro. Contribuisce a
creare questa suggestiva vaghezza la
bolla temporale in cui è racchiuso il film: alcuni elementi suggeriscono
che siano gli anni ’50, altri gli anni ’80, altri ancora il futuro; in alcune
scene si intuisce che è autunno, in altre che sia primavera; questi esseri non
sono legati esclusivamente né al giorno né alla notte. Ancora, non c’è alcun
movente dietro la violenza, non c’è il solito motivo della vendetta, non c’è un
evento eccezionale che scatena l’orrore. C’è un mezzo di per sé banale per la
trasmissione della maledizione (il sesso) e poi c’è il caso, la sfortuna. Manca
il motivo e dunque ancora una volta manca la possibilità di razionalizzare gli
eventi, e ancora una volta la narrazione orrorifica ne esce rafforzata.
Il dr. Loomis in "Halloween" di John Carpenter (1978) |
L’assenza del grande
ciclo
Gli horror a partire dagli anni ’80, in particolare gli slasher, hanno uno
schema preciso. Ci sono dei giovani di solito in età scolastica, che
rappresentano il futuro, che hanno valori e scopi diversi dalla generazione che
li precede, e c’è un assassino che vuole materialmente stroncare un pezzo di
questo futuro. Solitamente l’assassino viene fatto fuori (anche solo temporaneamente)
e il pericolo superato. Secondo Gilles
Deleuze alla base del cinema americano - in particolare nel genere western
che ne è stata la più grande fucina narrativa – vi è quella che chiama la “rappresentazione organica”: azione
dell’eroe e comunità non sono scindibili e l’azione risponde a uno schema del
tipo S-A-S1 [2]. Vale a dire: c’è una situazione
critica iniziale (S) à su questa interviene l’azione dell’eroe
(A), che si può spingere fino all’omicidio à il risultato finale è
il raggiungimento di una nuova situazione, migliore di quella precedente (S1)
e il radicamento dell’eroe nella comunità. Prendete Halloween – La notte delle streghe (1978): Michael Myers torna in
libertà e comincia a far fuori un gruppo di adolescenti (S); Laurie Stroode e
il dottor Loomis cominciano a contrastare Myers (A); la minaccia viene neutralizzata
e la cittadina è liberata dal pericolo, anche solo temporaneamente (S1).
Il grande ciclo, com’è stato definito, lo potete applicare alla gran parte delle pellicole statunitensi, qualunque sia
il loro genere. Questo schema ha tra le
altre cose una grande forza rassicurante, ed è animato dal mito occidentale del
progresso, del superamento delle sfide e soprattutto del rapporto costruttivo
tra individuo e comunità. Tale schema non trova applicazione in It Follows.
Non solo il finale del
film non ci dice se la situazione ha trovato soluzione, ma gli “eroi” di It Follows non mettono in atto alcuna azione risolutiva, che realmente possa
migliorare lo stato delle cose, non sono artefici di una rigenerazione, di una
palingenesi della comunità. Provano a risolvere il problema, ad eliminarlo,
ma quando lo fanno (la scena della piscina) sono goffi, inutili. Forse non a
caso è la parte più debole del film, e tuttavia necessaria. Decidono quindi non
di risolvere il problema, bensì di scaricarlo a qualcuno più debole, portando
la maledizione a una prostituta. Il loro è un nemico che a stento conoscono e per
il quale non hanno soluzione, se non quella di scrollarselo di dosso,
continuando la diffusione della maledizione all’interno comunità. Dalla loro
azione la comunità non esce rafforzata, rigenerata o migliorata, bensì
indebolita. Se volessimo dare una lettura
sociale del film, potremmo dire che è l’horror che ad oggi più ha incarnato lo
spirito di una generazione (la mia e probabilmente anche la vostra) che ha
ben poche possibilità di costruire, che è sovrastata da forze immense
(economiche e politiche) che a stento conosce e che poco può combattere, la cui
azione politica (qualsiasi sia il suo colore) ha come priorità il perseguimento
del benessere individuale prima ancora di quello collettivo e comunitario.
Nuove tendenze nel body horror
Secondo lo storico francese delle mentalità Philippe Ariès, il ‘900 dell’Occidente si differenzia dai secoli
precedenti anche nel rapporto con la morte. La morte – quella vera, dura e
cruda, non quella spettacolarizzata e banalizzata dell’industria dell’intrattenimento
- prima d’allora “addomesticata”, diventa tabù, viene reclusa negli ospedali,
tenuta fuori dalla portata dei bambini, considerata elemento nocivo alla crescita
e alla maturazione. [3] Viviamo nell’era
della massima demonizzazione del deperimento fisico legato alla vecchiaia e
alla morte; in una società il cui rapporto col corpo si caratterizza: A)
per un livello di esposizione ai suoi massimi storici, B) per l’ampia
diffusione di mezzi per contrastare il deperimento fisico e l’avanzare del
tempo, dalla chirurgia estetica al fotoritocco. Se negli anni ‘90 l’HIV è stato
nell’immaginario collettivo il grande male, negli anni duemila lo è invece il
tumore che è rapidamente associato alle sue manifestazioni esterne: dalla
caduta di capelli, al dimagrimento, al rigurgito. L’illusione di un Occidente
dall’aspettativa di vita sempre crescente è che la morte sia qualcosa di
estraneo alla quotidianità, che sia l’evento eccezionale, qualcosa che ha il
diritto di avverarsi unicamente in tarda età: il suo irrompere improvviso è la
grande paura dell’Occidente. Il gotico moderno, prendete Stephen King come massimo esempio, basa gran parte della sua
capacità di coinvolgimento sulla trasformazione del normale in eccezionale.
In
questa direzione si sta muovendo il più recente body horror. David Cronenberg,
che è il maestro indiscusso di tale sottogenere, fa un uso surrealista del
corpo, negli ultimi anni invece sta emergendo una dimensione più domestica del body
horror. Un filmetto altrimenti di poco interesse come The Taking of Deborah Logan (Adam
Robitel, 2014) merita attenzione per come lega la classica tematica horror
della possessione demoniaca con le malattie senili come l’Alzheimer. It
Follows si nutre delle paure e delle illusioni contemporanee inerenti al
modo di intendere il rapporto col corpo. La carica orrorifica dei suoi villain è fisicamente catalizzata nei
corpi invecchiati, nella pelle rugosa e pendente, nelle forme imperfette e
nude, nell’urina, nei volti scavati, nelle fisionomie tendenti al freak. È un body horror quello che sta venendo a galla negli ultimi anni che
per la sua dimensione domestica forse non è più in grado di creare personaggi
iconici come in passato, ma che è in grado di aggiornare l’inventario
orrorifico e aprire nuove interessanti strade, continuando una ricerca già intrapresa
nel genere da grandi visionari del passato come Stanley Kubrick, improntata sul conflitto tra nature e nurture.
La donna nella camera 237. Da "Shining" di Stanley Kubrick (1980) |
Sesso e violenza
- Che cos'è Videodrome?- Ah niente, torture, omicidi.- Sembra eccitante!- Ma non c'entra col sesso.- Lo dici tu!
da Videodrome di David Cronenberg (1983)
Altro legame portante nel film è quello tra sesso e violenza. Non è un caso che il genere horror esploda,
come già detto, in coincidenza con la rivoluzione sessuale avviata tra la fine
degli anni sessanta e settanta e da lì prosegue intrecciandone spesso il
cammino. Da un punto di vista pratico la possibilità di mostrare corpi e nudità
si traduce anche nella possibilità di mostrare corpi squartati. La vittima è
classicamente una donna e in maniera più o meno esplicita c’è una pulsione
sessuale che anima l’azione del nemico di turno: i serial killer si appostano
per massacrare coppiette, pedinandole con affanno sessuomane; forze demoniache
possiedono i corpi delle donne e la loro potenza sessuale; i vampiri seducono e
si cibano di energie di floride donne e così via. Il successo della coppia sesso-violenza, è sia nella sua capacità
d’incarnare la dicotomia vita/morte ai massimi livelli, sia nel suo “fascino
osceno” [4]. Nella rappresentazione che ne dà la cultura d’intrattenimento
americano, il sesso e la violenza
condividono sia le capacità rigeneratrici che quelle corruttrici. Il sesso
è coronamento dell’amore, nascita del nuovo nucleo familiare, ma anche
tentazione, corruzione, peccato. La violenza è attacco all’equilibrio delle
cose, ma anche mezzo che porta a rigenerazione e rinascita. Sesso e violenza
hanno inoltre in comune la capacità di parlare allo spettatore su un piano
pre-razionale, primitivo.
It Follows porta a coronamento
l’ambiguità legate al sesso e alla violenza giungendo alla loro piena
identificazione e interdipendenza. Freudianamente gioca sulla comune natura
di pulsione del sesso e della violenza [5], creando nello spettatore l’inconscio disagio derivante dal fatto che
l’accettazione e lo sdoganamento dell’uno implica l’accettazione e lo
sdoganamento anche dell’altro.
[1] E il regista se l’è anche presa per le parole di Tarantino.
[2] Cfr. Gilles Deleuze,
L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano, 2002.
[3] Cfr. Philippe Ariès, Storia della
morte in Occidente, Bur – Rizzoli, Milano 2009.
[4] Rubo l’espressione dal titolo di un’interessante antologia di saggi:
Stefano Rosso (a cura di), Un fascino osceno.
Guerra e violenza nella letteratura e nel cinema, Ombre corte, 2006. Come
da titolo, i saggi si occupano principalmente del secondo elemento della nostra
coppia.
[5] Cfr. Sigmund Freud, Il disagio di
civiltà, Torino, Bollati Boringhieri, 2012.
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