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mercoledì 27 gennaio 2016

[RECENSIONE] It Follows – Orrore indiziario, orrore sociale



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Attenzione, il post che segue contiene SPOILER



Introduzione

It Follows è il secondo lungometraggio di David Robert Mitchell (classe 1974). La carriera di questo regista è facile da riassumere: prima di questo film ha posto la sua firma solo su un corto del 2002, Virgin, e su un lungometraggio del 2010, The Myth of the American Sleepover. Come i precedenti,  It Follows è un film realizzato con poco
(2 milioni di dollari) e non gode in un primo momento di una buona distribuzione. Presentato nel 2014 al festival di Cannes e poi ad altre manifestazioni europee come Torino, arriva nelle sale americane nel marzo dell’anno successivo distribuito dalla Radius-TWC (sussidiaria della The Weinstein Company), mentre in altri paesi come l’Italia ad oggi non è mai stato distribuito (è previsto per il prossimo luglio, distribuito da Midnight Factory). Economicamente, considerata la sua natura Indie, il film ha avuto successo, con un incasso di 20 milioni di dollari. La critica e la rete internet ne hanno poi ulteriormente favorita la diffusione. Quentin Tarantino in persona, pur sottolineando qualche criticità, lo ha lodato durante un’intervista come uno degli horror più interessanti degli ultimi anni [1]. I paragoni con John Carpenter non sono mancati, forse a torto, forse a ragione, forse troppo precocemente. Quelle che seguono sono riflessioni, più o meno sistematiche, su It Follows, focalizzate su alcuni aspetti a dispetto di altri.

Una celebre scena tratta da "Il giorno degli zombi" di George A. Romero (1985). Effetti speciali di Tom Savini.


L’orrore indiziario e il non finito

L’horror è spesso associato a interiora, budella e squartamenti vari. Qualche volta è capitato anche a me di dire sconsolato dinanzi a un film “eh, ma non fa vedere niente”. È un’associazione sbagliata: quello è splatter, e lo splatter è solo una delle tante declinazioni possibili della materia orrorifica. Lo splatter ha conosciuto però negli anni ’80 una proliferazione incredibile, i massimi maestri del genere horror si sono immersi nel suo mare di sangue, e come sottogenere ebbe la capacità d’intercettare la grande rivoluzione del vhs. Ciò non vuol dire che da allora ci sia solo splatter, anzi al contrario lo splatter ha avuto una stagione iniziata negli anni ’80 e che si è chiusa orientativamente a metà degli anni ’90. Scream di Wes Craven (1996), che è forse l’horror più significativo degli anni ’90 e certamente quello che più ha influenzato altri registi, di splatter ha ben poco. Lo splatter ha però condizionato l’horror in una maniera ben precisa: alzando da un lato il livello del mostrabile e dall’altro imponendo la “visibilità” dell’orrore. L’orrore deve essere mostrato, non nascosto. Non è sempre stato così. C’è innanzitutto da dire che l’esposizione dell’orrore è qualcosa che, come ogni fenomeno culturale, ha una matrice sociale forte: l’orrore comincia ad essere mostrato senza remore dalla fine degli anni ’60, in coincidenza con il Vietnam e con i reportage di guerra che mostravano senza filtri masse di civili trucidati, i morti sui campi di battaglia, gli effetti del napalm. Tom Savini, forse il più grande e rivoluzionario make up artist del genere ha sempre affermato che il Vietnam (dove fu fotografo) è stata la sua principale scuola. Ancora l’orrore, che il più delle volte si traduce in ferite e sbudellamenti, trova modo di emergere in coincidenza con la rivoluzione sessuale e dei corpi, con la sexploitation cinematografica. Sesso e violenza condividono spesso lo stesso cammino, ma su questo torneremo più tardi. Ma soprattutto l’orrore comincia a poter essere mostrato per un cambiamento interno all’industria cinematografica: nel 1968, il Motion Picture Production Code del 1934 fu rimpiazziato, dopo una serie di decisioni della Corte Suprema, dal meno severo in fatto di censura Motion Picture Association of America film rating system. Dopo quella data i film di ogni genere poterono mostrare cose inimaginabili solo poco anni prima: La notte dei morti viventi di George A. Romero (1968) beneficiò di tale cambiamento – più di ogni altro film, perché uscì praticamente in un momento di vuoto legislativo – o si guardi ad esempio a come un film come Soldato Blu di Ralph Nelson (1970) con un’ondata di violenza scardinò sotto molti punti di vista il più iconico dei generi cinematografici americani, quello western. Oggi probabilmente il livello del mostrabile è ai suoi massimi storici, spinto in alto in particolare dai prodotti televisivi, su tutti quelli targati HBO. Ma mostrare l’orrore non è l’unico modo per raccontarlo e per indurlo. Per decenni l’orrore è stato raccontato per via indiziaria, suggerito più che palesato

Scena tratta da "Sentieri selvaggi" di John Ford (1956)


In virtù di tale logica indiziaria, il genere horror ha valorizzato ad esempio l’uso delle musiche. Permettetemi di tirare in ballo John Ford, che di horror non ne ha fatti ma che da attento regista quale fu ne rubò diversi elementi da usare nei suoi western, e che a sua volta con la sua cinematografia ha influenzato più di un maestro dell’orrore, come ad esempio John Carpenter. In Sentieri Selvaggi (1956) vi è una scena in cui i due protagonisti Ethan Edwards (John Wayne) e Martin Pawley (Jeffrey Hunter) rientrano a casa dopo aver dato la caccia agli Indiani e la trovano distrutta e bruciata da questi ultimi. La famiglia è stata massacrata. Siamo nel ’56, Ford non può e non vuole mostrarci i cadaveri dilaniati, le viscere, i loro occhi spenti, decide invece di inquadrare i volti dei due protagonisti e attraverso i loro volti, le loro espressioni di disgusto suggerirci l’orrore, confidando nel fatto che l’immaginazione dello spettatore una volta indirizzata nel modo giusto, si spingerà più in là di quanto possa fare l’obiettivo, del sangue artificiale, di un po’ di trucco. Suggerire l’orrore, instaurare un dialogo con il pubblico, puntare alla sua suggestione e mettere dalla propria parte l’alleato più prezioso di ogni narratore: l’immaginazione di chi usufruisce dell’opera. It Follows si apre con una scena estremamente efficace che combina perfettamente il metodo “dell’orrore indiziario” e quello “dell’orrore palesato”. Una ragazza corre fuori casa guardandosi intorno, è terrorizzata, non è notte siamo all’imbrunire e non è inseguita da nessuno. Le prime inquadrature fanno pensare che siamo di fronte a uno slasher movie, ma non c’è alcun serial killer armato di coltellaccio all’inseguimento. Il pericolo sarà nella casa. Il padre della ragazza esce nel vialetto e cerca di calmarla, ma lei rientra nella stessa casa da cui è fuggita. Il pericolo non è nella casa. Esce ancora una volta, prende l’auto e fugge. Guida fino a una spiaggia, continuando a guardarsi intorno mentre è al volante. Sola in riva al mare, chiama il padre “Papà, ti voglio bene. Voglio che tu sappia quanto ti voglio bene. Papà, mi dispiace se sono stata una stronza con te, qualche volta. Lo so che lo sono stata. Sappi che ti voglio bene, ok? Vi voglio bene a entrambi.” Lo spettatore è portato dal dialogo a immaginarsi un suicidio, poi lo stacco netto e brutale del montaggio smentisce anche questo indizio e ci mostra la ragazza morta, una gamba spezzata e in posizione innaturale, un piede mancante, sangue. 



Il regista fornisce allo spettatore tutta una serie di falsi indizi, sfrutta l’immaginario collettivo che lo spettatore condivide per fargli immaginare vari tipi di pericolo, smentirli, suggerirne altri, fino a mostrargli l’orrore in maniera palese: i suoi effetti però, non la sua fonte. Qui c’è un'altra intuizione del regista. Viviamo in un epoca in cui tutto è conosciuto, già visto, ogni cosa è visibile, tutto è in comunicazione istantanea, ogni cosa può essere conosciuta con un paio di click, tutti si sentono in grado di comprendere il mondo in cui vivono, in ogni suo aspetto: l’orrore è indotto innanzitutto privando lo spettatore della conoscenza. Non è un tecnica nuova, sia chiaro. Pensate alla classica porta socchiusa mostrata in mille film: a farci paura è il fatto di non sapere se lì dietro ci sia o meno l’assassino. Qui però la privazione della conoscenza è portata ai massimi livelli e usata con maestria. Nella prima parte del film non sappiamo quale sia la fonte del pericolo; poi veniamo a sapere che è una maledizione trasmessa attraverso il sesso (che è anche l’unico mezzo per liberarsene), per cui strani esseri inseguono il malcapitato: lo spettatore però non sempre è in grado di vederli, così come non lo sono i personaggi non colpiti dalla maledizione, quindi l’orrore potrebbe essere in ogni stanza, in ogni momento, senza che lo spettatore lo sappia. Si aggiunga a ciò il fatto che questi inseguitori (i follower del titolo) sono in grado di assumere varie sembianze, anche comuni o note alla vittima e che quindi non possono essere riconosciuti, aggiungendo a ciò ulteriore incognita e suspense per lo spettatore.  



Il film è stato criticato per la sua indeterminatezza, per non aver chiarito la natura della maledizione, la sua ragione, i suoi meccanismi. Pare che a tal proposito sarà prodotto un sequel in cui verranno sciolti alcuni dubbi. In realtà una spiegazione, una razionalizzazione, depontenzierebbe la macchina narrativa. Il film, nel suo svolgimento e nel finale, ricorda la tecnica scultorea michelangiolesca del non finito: alcuni elementi sono solo abbozzati, la loro spiegazione rimandata, indeterminati in modo tale da impostare un dialogo che permetta all’immaginazione e all’autosuggestione dello spettatore di scorrere libera, potente, di completare da sé quanto lasciato fuori dall’occhio della telecamera. Ripeto, nell’orrore, reale e irreale, non spaventa ciò che è, ma ciò che può essere: come dicevo, non è una porta socchiusa a spaventare, ma ciò che potrebbe esserci dietro. Contribuisce a creare questa suggestiva vaghezza la bolla temporale in cui è racchiuso il film: alcuni elementi suggeriscono che siano gli anni ’50, altri gli anni ’80, altri ancora il futuro; in alcune scene si intuisce che è autunno, in altre che sia primavera; questi esseri non sono legati esclusivamente né al giorno né alla notte. Ancora, non c’è alcun movente dietro la violenza, non c’è il solito motivo della vendetta, non c’è un evento eccezionale che scatena l’orrore. C’è un mezzo di per sé banale per la trasmissione della maledizione (il sesso) e poi c’è il caso, la sfortuna. Manca il motivo e dunque ancora una volta manca la possibilità di razionalizzare gli eventi, e ancora una volta la narrazione orrorifica ne esce rafforzata.

Il dr. Loomis in "Halloween" di John Carpenter (1978)


L’assenza del grande ciclo

Gli horror a partire dagli anni ’80, in particolare gli slasher, hanno uno schema preciso. Ci sono dei giovani di solito in età scolastica, che rappresentano il futuro, che hanno valori e scopi diversi dalla generazione che li precede, e c’è un assassino che vuole materialmente stroncare un pezzo di questo futuro. Solitamente l’assassino viene fatto fuori (anche solo temporaneamente) e il pericolo superato. Secondo Gilles Deleuze alla base del cinema americano - in particolare nel genere western che ne è stata la più grande fucina narrativa – vi è quella che chiama la “rappresentazione organica”: azione dell’eroe e comunità non sono scindibili e l’azione risponde a uno schema del tipo S-A-S1 [2]. Vale a dire: c’è una situazione critica iniziale (S) à su questa interviene l’azione dell’eroe (A), che si può spingere fino all’omicidio à il risultato finale è il raggiungimento di una nuova situazione, migliore di quella precedente (S1) e il radicamento dell’eroe nella comunità. Prendete Halloween – La notte delle streghe (1978): Michael Myers torna in libertà e comincia a far fuori un gruppo di adolescenti (S); Laurie Stroode e il dottor Loomis cominciano a contrastare Myers (A); la minaccia viene neutralizzata e la cittadina è liberata dal pericolo, anche solo temporaneamente (S1). Il grande ciclo, com’è stato definito, lo potete applicare alla gran parte delle pellicole statunitensi, qualunque sia il loro genere. Questo schema ha tra le altre cose una grande forza rassicurante, ed è animato dal mito occidentale del progresso, del superamento delle sfide e soprattutto del rapporto costruttivo tra individuo e comunità. Tale schema non trova applicazione in It Follows. 



Non solo il finale del film non ci dice se la situazione ha trovato soluzione, ma gli “eroi” di It Follows non mettono in atto alcuna azione risolutiva, che realmente possa migliorare lo stato delle cose, non sono artefici di una rigenerazione, di una palingenesi della comunità. Provano a risolvere il problema, ad eliminarlo, ma quando lo fanno (la scena della piscina) sono goffi, inutili. Forse non a caso è la parte più debole del film, e tuttavia necessaria. Decidono quindi non di risolvere il problema, bensì di scaricarlo a qualcuno più debole, portando la maledizione a una prostituta. Il loro è un nemico che a stento conoscono e per il quale non hanno soluzione, se non quella di scrollarselo di dosso, continuando la diffusione della maledizione all’interno comunità. Dalla loro azione la comunità non esce rafforzata, rigenerata o migliorata, bensì indebolita. Se volessimo dare una lettura sociale del film, potremmo dire che è l’horror che ad oggi più ha incarnato lo spirito di una generazione (la mia e probabilmente anche la vostra) che ha ben poche possibilità di costruire, che è sovrastata da forze immense (economiche e politiche) che a stento conosce e che poco può combattere, la cui azione politica (qualsiasi sia il suo colore) ha come priorità il perseguimento del benessere individuale prima ancora di quello collettivo e comunitario.



Nuove tendenze nel body horror

Secondo lo storico francese delle mentalità Philippe Ariès, il ‘900 dell’Occidente si differenzia dai secoli precedenti anche nel rapporto con la morte. La morte – quella vera, dura e cruda, non quella spettacolarizzata e banalizzata dell’industria dell’intrattenimento - prima d’allora “addomesticata”, diventa tabù, viene reclusa negli ospedali, tenuta fuori dalla portata dei bambini, considerata elemento nocivo alla crescita e alla maturazione. [3] Viviamo nell’era della massima demonizzazione del deperimento fisico legato alla vecchiaia e alla morte; in una società il cui rapporto col corpo si caratterizza: A) per un livello di esposizione ai suoi massimi storici, B) per l’ampia diffusione di mezzi per contrastare il deperimento fisico e l’avanzare del tempo, dalla chirurgia estetica al fotoritocco. Se negli anni ‘90 l’HIV è stato nell’immaginario collettivo il grande male, negli anni duemila lo è invece il tumore che è rapidamente associato alle sue manifestazioni esterne: dalla caduta di capelli, al dimagrimento, al rigurgito. L’illusione di un Occidente dall’aspettativa di vita sempre crescente è che la morte sia qualcosa di estraneo alla quotidianità, che sia l’evento eccezionale, qualcosa che ha il diritto di avverarsi unicamente in tarda età: il suo irrompere improvviso è la grande paura dell’Occidente. Il gotico moderno, prendete Stephen King come massimo esempio, basa gran parte della sua capacità di coinvolgimento sulla trasformazione del normale in eccezionale. 



In questa direzione si sta muovendo il più recente body horror. David Cronenberg, che è il maestro indiscusso di tale sottogenere, fa un uso surrealista del corpo, negli ultimi anni invece sta emergendo una dimensione più domestica del body horror. Un filmetto altrimenti di poco interesse come The Taking of Deborah Logan (Adam Robitel, 2014) merita attenzione per come lega la classica tematica horror della possessione demoniaca con le malattie senili come l’Alzheimer. It Follows si nutre delle paure e delle illusioni contemporanee inerenti al modo di intendere il rapporto col corpo. La carica orrorifica dei suoi villain è fisicamente catalizzata nei corpi invecchiati, nella pelle rugosa e pendente, nelle forme imperfette e nude, nell’urina, nei volti scavati, nelle fisionomie tendenti al freak. È un body horror quello che sta venendo a galla negli ultimi anni che per la sua dimensione domestica forse non è più in grado di creare personaggi iconici come in passato, ma che è in grado di aggiornare l’inventario orrorifico e aprire nuove interessanti strade, continuando una ricerca già intrapresa nel genere da grandi visionari del passato come Stanley Kubrick, improntata sul conflitto tra nature e nurture.

La donna nella camera 237. Da "Shining" di Stanley Kubrick (1980)


Sesso e violenza 

- Che cos'è Videodrome?- Ah niente, torture, omicidi.- Sembra eccitante!- Ma non c'entra col sesso.- Lo dici tu!
da Videodrome di David Cronenberg (1983)

Altro legame portante nel film è quello tra sesso e violenza. Non è un caso che il genere horror esploda, come già detto, in coincidenza con la rivoluzione sessuale avviata tra la fine degli anni sessanta e settanta e da lì prosegue intrecciandone spesso il cammino. Da un punto di vista pratico la possibilità di mostrare corpi e nudità si traduce anche nella possibilità di mostrare corpi squartati. La vittima è classicamente una donna e in maniera più o meno esplicita c’è una pulsione sessuale che anima l’azione del nemico di turno: i serial killer si appostano per massacrare coppiette, pedinandole con affanno sessuomane; forze demoniache possiedono i corpi delle donne e la loro potenza sessuale; i vampiri seducono e si cibano di energie di floride donne e così via. Il successo della coppia sesso-violenza, è sia nella sua capacità d’incarnare la dicotomia vita/morte ai massimi livelli, sia nel suo “fascino osceno” [4]. Nella rappresentazione che ne dà la cultura d’intrattenimento americano, il sesso e la violenza condividono sia le capacità rigeneratrici che quelle corruttrici. Il sesso è coronamento dell’amore, nascita del nuovo nucleo familiare, ma anche tentazione, corruzione, peccato. La violenza è attacco all’equilibrio delle cose, ma anche mezzo che porta a rigenerazione e rinascita. Sesso e violenza hanno inoltre in comune la capacità di parlare allo spettatore su un piano pre-razionale, primitivo.



It Follows porta a coronamento l’ambiguità legate al sesso e alla violenza giungendo alla loro piena identificazione e interdipendenza. Freudianamente gioca sulla comune natura di pulsione del sesso e della violenza [5], creando nello spettatore l’inconscio disagio derivante dal fatto che l’accettazione e lo sdoganamento dell’uno implica l’accettazione e lo sdoganamento anche dell’altro.

[1] E il regista se l’è anche presa per le parole di Tarantino.  
[2] Cfr. Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano, 2002.
[3] Cfr. Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Bur – Rizzoli, Milano 2009.
[4] Rubo l’espressione dal titolo di un’interessante antologia di saggi: Stefano Rosso (a cura di), Un fascino osceno. Guerra e violenza nella letteratura e nel cinema, Ombre corte, 2006. Come da titolo, i saggi si occupano principalmente del secondo elemento della nostra coppia.

[5] Cfr. Sigmund Freud, Il disagio di civiltà, Torino, Bollati Boringhieri, 2012.


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