Introduzione
Sessant’anni dalla prima proiezione di quello che
forse è il capolavoro di John Ford, Sentieri
selvaggi (The Searchers, 1956).
La mia passione per questo regista e per questo film è palese (l’header di sopra ne è un esempio). Quello che segue è un estratto dalla mia tesi in Scienze Storiche, discussa nell’ottobre 2015, dal titolo La rappresentazione cinematografica dei nativi americani: una lettura del passato asservita al presente. Nell’ambito di tale lavoro, tra i settanta film presi in analisi, non poteva mancare Sentieri selvaggi. È un film grandioso, molto complesso, e quella che segue, per quanto lunga, non è che una piccola parte di quanto andrebbe detto. Non è che una delle tante tematiche attraverso cui guardare a questo capolavoro.
La questione “indiana” in John Ford
Ford dal dopoguerra fino alla metà degli anni ’60
realizzò alcuni dei suoi capolavori western. In questo arco di tempo, Ford
ragionò sulla rappresentazione dei Nativi americani e sono evidenti nella sua
filmografia i segni di questa riflessione. Negli anni ’90, ha avuto luogo un intenso
dibattito sul rapporto tra Ford e gli Indiani. Il regista dichiarò che la sua
simpatia era sempre stata con gli Indiani, anche per le sue origini irlandesi [1] e personalmente egli ebbe un
ottimo rapporto con la tribù Navajo della Monument Valley, tanto da essere
ricevuto dalla tribù e meritarsi un nome indiano, Natani Nez (Il Grande
Soldato) [2].
Tuttavia, non sempre dai
suoi film emerge un ritratto positivo dei Nativi americani (basta guardare a film come anteguerra come Il cavallo d'acciaio del 1924, Ombre rosse o La più grande avventura, entrambi del 1939). Richard Maltby sostiene che nella
filmografia di Ford c’è un persistente razzismo [3],
al contrario per William Darby da Il massacro di Fort Apache (1948) in poi c’è un graduale
miglioramento dell’immagine dei nativi americani [4].
Ken Nolley, invece, ha assunto una posizione intermedia per molti versi più
convincente: non si può negare che in venticinque anni, da Ombre rosse (1939) a Il grande sentiero (1964), ci sia stato
in Ford un ripensamento dell’immagine degli Indiani, tuttavia esso non è
lineare e per comprenderlo è necessario tener presenti i rapporti con gli
studios, con il mercato, con il team che di volta in volta lo affiancava nella
lavorazione. Per lo studioso, pur non arrivando mai a un pieno ribaltamento dei
ruoli, in film come Sentieri selvaggi e Il grande sentiero, Ford opera la rottura di
determinati schemi che egli stesso aveva contribuito a consolidare negli anni precedenti [5].
In Ford è fondamentale l’idea della comunità. Comunità che nella visione del regista è, come l’ha definita Toni D’Angela, un tutto organico [6]: qualcosa che espande l’individuo ma che non è mai rigida, mai istituzionalizzata, esclusivista o bigotta; è un organismo in continuo movimento, in cui il mito prolifera e svolge il ruolo di cementificatore, di collante. Da un lato la comunità vive grazie al mito e ai suoi rituali collettivi che la tengono insieme (dalla messa ai balli), dall’altro questo organismo è in continuo confronto con quanto è fuori da esso e tale confronto può generare incontro (come con gli irlandesi di Il cavallo d'acciaio, i mormoni di La carovana dei mormoni del 1950, fino alla prostituta, al ricercato e all’alcolizzato di Ombre rosse) o scontro.
Gli Indiani
in Ford, dunque, giocano un doppio ruolo: sono al tempo stesso sia oggetto
della mitologia della genesi della comunità e della nazione americana, ma anche
l’incontro/scontro ai massimi livelli possibili. Sulla questione dei nativi,
pur in un percorso non lineare, Ford è in continuo aggiornamento ideologico.
[...]
La questione dei Nativi americani in Sentieri Selvaggi
Sentieri
Selvaggi rappresenta per il genere western e la
rappresentazione cinematografica dei nativi americani un vero e proprio turning point [7]. Del film è stato
detto che chiude la fase epica del western, aprendo quella tragico-romanzesca [8] – o cinica, secondo Michael
Hilger [9] – che costrinse i western
che seguirono a confrontarsi con il tema del razzismo, qui definitivamente
portato in superficie [10].
Il film è tratto da un libro Alan LeMay, autore
vendutissimo dai cui scritti emerge una società bianca contraddistinta da uno
schietto razzismo [11]. Mai come in questo film,
il personaggio bianco si definisce in relazione e in contrapposizione con il
mondo dei pellerossa. Sul rapporto tra il protagonista del film e il mondo dei
nativi americani, Roberto De Gaetano dice “l’odio è la forma più radicale e
inesorabile di dipendenza dall’altro” e sostiene che per la prima volta nel
western la vittoria del protagonista bianco coincide con la sua stessa
sconfitta, in quanto una volta vinto il nemico Ethan Edwards si ritrova
svuotato [12].
Il capo indiano Scar
(Henry Brandon) è quello che Angela Aleiss definisce “personaggio specchio” [13]. Somiglia molto a Ethan: la
sua famiglia è stata massacrata, odia l’altro e ci si relaziona con violenza,
conosce sufficientemente la cultura e il mondo del suo nemico.
Martin (Jeffrey Hunter), il coprotagonista, è invece un meticcio, forse un mezzosangue vero e proprio o forse solo per un ottavo. “È colui che tiene
insieme, che non distingue (e quindi inquieta), è il concatenamento originario
fra l’io e l’altro [14]”. Sin dall’inizio ci viene
mostrato un certo astio nei confronti di Martin da parte di Ethan, personaggio
animato da un odio totale per il mondo indiano e verso il quale il pubblico non
viene messo nella condizione di simpatizzare, nonostante sia interpretato dalla
star John Wayne.
Martin, al contrario, non è spietato come Ethan, quando per la prima volta spara contro gli Indiani non lo fa a cuor leggero. La presenza del ragazzo è necessaria per moderare Ethan, la cui follia può debordare e danneggiare la comunità. La nascente comunità ha bisogno di Martin più che di Ethan: in fin dei conti, è Martin a salvare Debbie da Ethan in occasione del primo incontro, è lui ad uccidere Scar, ed è sempre suo merito se nella sua seconda azione l’esercito non opera un massacro indiscriminato ma un’operazione con precisione chirurgica. Ha poteri quasi taumaturgici sugli altri: forse è il suo gesto d’amore nei confronti di Debbie a riportare la ragazza tra i bianchi, alla “ragione”, provocando un cambiamento altrimenti inspiegabile.
Martin, al contrario, non è spietato come Ethan, quando per la prima volta spara contro gli Indiani non lo fa a cuor leggero. La presenza del ragazzo è necessaria per moderare Ethan, la cui follia può debordare e danneggiare la comunità. La nascente comunità ha bisogno di Martin più che di Ethan: in fin dei conti, è Martin a salvare Debbie da Ethan in occasione del primo incontro, è lui ad uccidere Scar, ed è sempre suo merito se nella sua seconda azione l’esercito non opera un massacro indiscriminato ma un’operazione con precisione chirurgica. Ha poteri quasi taumaturgici sugli altri: forse è il suo gesto d’amore nei confronti di Debbie a riportare la ragazza tra i bianchi, alla “ragione”, provocando un cambiamento altrimenti inspiegabile.
Il contesto è quello del Sud, impoverito e distrutto
in seguito alla guerra civile. Ethan è un sudista convinto, ancora fedele alla
causa: “Un uomo deve fare un giuramento alla volta”, dice in risposta al
reverendo un tempo dalla parte degli stati confederati e ora riappacificato con
gli Stati Uniti di matrice nordista. Il suo odio per i nativi americani è
viscerale e spesso sfocia in violenza gratuita, quasi folle.
Tradizionalmente l’azione nel cinema western è
sorretta da quella che Gilles Deleuze ha chiamato rappresentazione organica [15]:
azione dell’eroe e comunità non sono scindibili, l’azione risponde a uno
schema del tipo S-A-S1. Vale a dire: una situazione critica iniziale
(S), sulla quale agisce l’eroe (A) che si può spingere fino all’omicidio, il
raggiungimento di una nuova situazione migliore di quella precedente (S1)
e il radicamento dell’eroe nella comunità. In Sentieri Selvaggi tale schema non è applicabile. Ethan Edwards ha
una serie di caratteristiche che non permettono di classificarlo come eroe, ma
soprattutto egli non appartiene né entra a far parte della comunità e le sue
azioni, più che dall’interesse per la collettività, sono dettate da proprie
personali pulsioni-ossessioni: la sua violenza non porta benefici alla
comunità, ma è spesso fine a sé stessa.
Scrive Franco Ferrini: “Il viaggio di
Ethan non è che una parodia di questo tema. Il suo oggetto non ha nulla di
positivo, di costruttivo (trovare una patria o mettere su casa). Tende solo
alla distruzione: scotennare Scar [16]”. Ha un modo di agire
selvaggio, ai limiti della razionalità, che lo avvicina più ai suoi avversari
che agli altri membri della comunità bianca. Quando trova il cadavere di un
guerriero indiano gli spara negli occhi, perché secondo le credenze Comanche
senza occhi il cadavere sarà costretto per sempre a vagare nel mondo degli
spiriti, e nel compiere il gesto si diverte. Durante il primo scontro
con la tribù di Scar, disobbedendo al reverendo che guida la spedizione, non dà
tempo agli Indiani di recuperare i feriti e continua a sparare fino all’ultima
cartuccia sui guerrieri avversari, uccidendo i suoi nemici anche alle spalle.
Nel personaggio di Ethan non c’è quindi eroismo, non c’è codice d’onore, nello
scontro non c’è quella cavalleria che era proprio la caratteristica che era
stata più volte attribuita agli Indiani quando si voleva nobilitarli (ad
esempio, in L'ultimo dei Mohicani, nella
sua versione del 1920). Ancora, Ethan si spinge a massacrare i bufali che
incontra solo per affamare in futuro gli Indiani.
L’odio del personaggio
interpretato da Wayne supera ogni moralità e legittimità quando questo vuole
uccidere la nipote ritrovata, perché oramai “indianizzata”. La sua posizione è
chiara: “Vivere con i Comanche non significa vivere”. Nel finale scotenna Scar,
ritrovandosi quanto mai simile al nemico appena deceduto.
La comunità di Sentieri
Selvaggi non è ancora formata, essenzialmente è ridotta a due famiglie, gli
Edwards e gli Jorgensen che cercano di intrecciare le loro dinastie. La morte
dei due fidanzati Lucy e Brad simboleggia il pericolo d’estinzione della
comunità. Nella scena finale, da un lato assistiamo alla rinascita della
comunità con il matrimonio tra Martin e Laurie Jorgensen e il reinserimento di
Debbie; dall’altro assistiamo all’esclusione dalla comunità di Ethan che,
seppur fondamentale nella genesi, con la sua violenza [17],
il suo odio, il suo estremismo non può far parte di questa seconda fase della
vita comunitaria. Toni D’Angela legge nel finale di Sentieri selvaggi la sconfitta dell’uomo del west, che viene messo fuori
dalla nuova comunità capitalistica, che è nata proprio grazie a quella guerra
civile che Ethan ha perduto: “Uomini come Ethan Edwards, refrattari all’ordine
e alla disciplina, esseri fondamentalmente ai margini – come il capo indiano
Scar – sono destinati a restare fuori dello sviluppo capitalistico, fuori della
Storia, costretti a vagabondare in un presente che va via via consumandosi
sempre più [18]”. È la fine del rapporto
tra comunità ed eroe bianco così come il western l’aveva descritto per quasi
cinquant’anni.
Sentieri
Selvaggi è un western con una
struttura indiziaria, pieno di vuoti, in cui molte cose non sono mostrate, ma
suggerite [19].
La violenza degli Indiani ci è solo suggerita. Non
viene mostrato l’attacco alla casa degli Edwards, se non attraverso la tensione
sui volti dei personaggi che lo subiscono, né vengono mostrati i cadaveri di
Martha, Aaron, Ben e Lucy Edwards, se non attraverso il disgusto sul viso di
Ethan. È una tecnica particolarmente efficace, in cui il regista suggerisce
allo spettatore, dà degli indizi e stimola l’immaginazione che immediatamente
si spinge a un livello di brutalità sicuramente superiore a quello che Ford
avrebbe potuto mostrare. La violenza degli Indiani è però soprattutto violenza
sulle donne, secondo lo studioso Michael Hilger, “Sentieri Selvaggi, uno dei migliori western, è tristemente anche un
esempio lampante del razzismo che vi è dietro il ritratto dei selvaggi nativi
americani come profanatori di donne bianche [20]”.
La morte degli indiani invece è mostrata in maniera diversa, con meno pathos e
non è mai nascosta agli occhi, né affidata all’immaginazione come quella dei
protagonisti bianchi [21].
Nel corso del film, Martin sposa per errore
un’indiana. La rappresentazione della donna è macchiettistica, c’è una
sessualizzazione al contrario [22]. Tuttavia, Ford la ritrae
come la creatura più innocente dell’intera pellicola e il suo assassinio,
insieme al resto della tribù (donne, bambini e anziani compresi), da parte
dell’esercito degli Stati Uniti rappresenta uno dei momenti più emozionanti del
film e di aperta critica al militarismo degli Stati Uniti.
Quando Ethan entra
nella baracca dove sono radunate le donne bianche rapite negli anni dai
pellerossa, le donne vengono prese dall’isteria, piangono e urlano. Una in
particolare si ostina a cullare un pezzo di legno come se fosse il suo bambino.
Un soldato dice: “È difficile credere che siano bianche” e Ethan risponde, “Non
sono bianche, non più. Sono Comanche”. Attraverso la scena, Ford mostra come il
razzismo di Ethan si estende anche sui bianchi “perduti”, e allo stesso tempo
critica il massacro perpetuato dall’esercito statunitense, perché è chiaro che
le donne, ancora prima di essere bianche o comanche, sono traumatizzate da
quanto fatto dalle divise blu. Per Giorgio Mariani [23],
come per Ken Nolley [24], è attraverso queste scene
che Ford opera un primo ribaltamento nella rappresentazione della storia dei
nativi americani, che proseguirà in Cavalcarono insieme (1961) e Il grande sentiero.
Tradizionalmente la violenza dei bianchi è stata rappresentata come legittima
in quanto risposta a quella dei pellerossa; qui invece sono i pellerossa ad
aver subito la violenza (con l’uccisione dei figli di Scar), ad aver risposto
attraverso le armi (e tuttavia risparmiando Debbie e Lucy) e ad aver nuovamente
subito una risposta violenta che però non ha risparmiato nessuno. In Sentieri selvaggi, dunque, il mondo dei
bianchi ci viene mostrato violento quanto quello degli indiani, se non di più.
Il ritratto della cavalleria è estremamente differente da quello che Ford aveva
fatto nell’immediato dopoguerra: la cavalleria non solo è spietata, ma
caratterizzata anche dall'incompetenza, incarnata dal giovane tenente Greenhill
(Patrick Wayne). Come sottolinea Angela Aleiss, “il messaggio è disturbante e
realistico: sotto l’impalcatura della civiltà giace una terrificante barbarie [25]”.
Tuttavia, secondo alcuni, Ford non si spinge fino alla denuncia
completa della società bianca: “Dopo aver denunciato, sia pur in modo più
implicito che esplicito, la sostanza violenta e razzista della conquista del
west, cerca di forgiare una distinzione tra colonizzatori buoni e cattivi, che
nella realtà delle vicende narrate non regge assolutamente. I buoni, infatti,
attingono a piene mani ai risultati prodotti dall’opera dei cattivi [26]”. Questo film, dunque, apparterrebbe secondo una parte della critica a quella categoria che Ward Churchill, analizzando il
film Il piccolo grande uomo (Arthur Penn,
1970), ha definito Custerismo e che
caratterizzerà e limiterà la gran parte dei cosiddetti film revisionisti:
“simbolicamente dissociano sé stessi dalle intollerabili storture del
Custerismo, in tal modo si sentono bene con sé stessi anche se continuano a
partecipare e a beneficiare dell’ordine socioeconomico che il Custerismo ha
prodotto [27]”. C’è dunque una
dissociazione parziale dalla violenza, dal razzismo, dall’intervento armato.
Ford sembra suggerire che essi siano necessari per la nascita e la difesa della
comunità, ma sono elementi che vanno espulsi una volta fondata la comunità,
rispediti nel deserto, al di là della porta, così come accade a Ethan Edwards.
Letto nel contesto degli anni ’50, della cosiddetta “teoria della rappresaglia
massiccia” del segretario di Stato John Foster Dulles, delle tante azioni che
il governo americano promosse sullo scacchiere globale - dall’operazione Ajax
in Iran, agli interventi in Guatemala, in Libano, al ruolo nella crisi di Suez
– nel film di Ford potrebbe, secondo il parere di chi scrivere, essere letto un
messaggio politico in parte a favore dell’interventismo, necessario per la
difesa e il consolidamento della comunità americana.
In rapporto, invece, alla
politica governativa della termination che in
quegli anni trionfava definitivamente, sostenendo le virtù della distruzione della cultura dei Nativi e la loro assimilazione in quella bianca, il film appare come una condanna dei
tentativi assimilazionisti. La nuova comunità che si forma alla fine del film è
composta da membri di origine irlandese, scozzese, scandinave, parzialmente
afro-americani e da un meticcio che ha scelto di stare senza alcun serio
tentennamento dalla parte dei bianchi. Per i Nativi Americani invece non c’è
spazio, non c’è possibilità di assimilazione, essa non è la chiave per una coesistenza pacifica. In questa pellicola prevalgono le
ansie e il pessimismo (ma volendo anche il realismo) che caratterizzarono la produzione di Ford a partire
dalla metà degli anni ‘50 [28]: lo sterminio dei Nativi, pur se
deprecabile, continua ad essere elemento fondativo della storia e del mito
della comunità bianca.
Nel 1956, John Ford dunque tornò a cambiare le carte
in tavola e a riscrivere le regole del western. Dopo quella data il genere
comincia a mostrare sempre più spesso un certo cinismo, uno smaccato disincanto
nel ritratto dei personaggi bianchi che diventano incarnazione di un razzismo
esplicito, violento nei gesti e nelle parole, privo di giustificazioni
ideologiche o discorsi legittimanti. Certamente, opere crepuscolari esistevano
anche prima di quella data, si pensi ad esempio a La lotta per la vita [29] (King
Baggot, 1925), ma a partire da Sentieri selvaggi le questioni del razzismo e della possibilità dell’assimilazione
diventano imperanti e più espliciti che mai. Ciò in coincidenza della sempre più
spiccata centralità che il problema dell’uguaglianza razziale e dei diritti
assume nel dibattito pubblico e dell’attuazione della politica della termination. Il distacco tra
protagonista e comunità diviene il nuovo leitmotiv
del genere, sulla scia di quanto Ford aveva fatto con il personaggio di
Ethan Edwards.
[1]
Cfr. K. Nolley, The Representation of Conquest. John Ford and the Hollywood Indian, 1939-1964, in P. C. Rollins e J. O’Connor (a cura di) Hollywood’s Indian. The Portayal of the Native, Kentucky, The University Press of Kentucky, 2003.
[2] Cit. Peter Bogdanovich, Il cinema secondo John Ford, Parma, Patriche Editrice, 1990, p. 23.
[3]
Cfr. Richard Maltby, A Better Sense of
History: John Ford and the Indians, in Ian Cameron e Douglas Pye (a cura
di), The Book of Westerns, New York,
Continuum Intl Pub Group, 1996, pp. 34-49.
[4]
Cfr. William Darby, John Ford’s Westerns:
A Thematic Analysis with a Filmography, McFarland & Company, 1996.
[5]
Cfr. K. Nolley, The Representation of
Conquest…., in P. C. Rollins e J. O’Connor (a cura di) Hollywood’s Indian.
[6] Cit. Toni D’Angela, Frontiere. Osservazioni sul western di John
Ford, in T. D’Angela (a cura di), Il cinema western. Da
Griffith a Peckinpah, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2004, p. 23-24.
[7] Cit. Angela Aleiss, Making the white man’s Indian. Native Americans and Hollywood Movies, Westport, Praeger Pubblishers, 2005, p. 101.
[8] Cfr. Roberto De Gaetano, L’interprete e la traccia. Sentieri Selvaggi,
in T. D’Angela (a cura di), Il cinema
western da Griffith a Peckinpah, p. 144.
[9]
Cit. Michael Hilger, From Savage to Nobleman: Images of Native Americans in Film, Lanham, Maryland, The Scarecrow Press, 2002.,
p. 108.
[10]
Cfr. James Monaco, How to read a film,
New York, Oxford University Press, 1977, p. 253.
[11]
Cfr. Ward Churchill, Fantasies of the master race: literature, cinema and the colonization of American Indians, San Francisco, City Lights, 1998, p. 196-197.
[12] Cfr. R. De Gaetano, L’interprete e la traccia. Sentieri Selvaggi,
in T. D’Angela (a cura di), Il cinema
western da Griffith a Peckinpah, pp. 138-139.
[13]
Cit. A. Aleiss, Making the white man’s
Indian…, pp. 102-105.
[14] Cit. R. De Gaetano, L’interprete e la traccia. Sentieri Selvaggi,
in T. D’Angela (a cura di), Il cinema
western da Griffith a Peckinpah, p. 138.
[15] Cit. Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri,
Milano, 2002.
[16]
Cit. Franco Ferrini, John Ford, Roma - Milano, L’Unità – Il Castoro, 1995, p. 65.
[17] Pur cambiando i connotati, la
violenza resta pur sempre, come l’ha definita Stefano Rosso, “necessaria alla
fondazione e al mantenimento di un ordine sociale spesso fragile e precario”.
Cit. Stefano Rosso (a cura di), Un fascino osceno. Guerra e violenza nella letteratura e nel cinema, Verona, Ombre Corte, 2006, p. 13.
[18] Cit. T. D’Angela, Frontiere. Osservazioni sul western di John
Ford, in T. D’Angela (a cura di), Il
cinema western da Griffith a Peckinpah, p. 63.
[19] Cfr. R. De Gaetano, L’interprete e la traccia. Sentieri Selvaggi,
in T. D’Angela (a cura di), Il cinema
western da Griffith a Peckinpah, pp. 138-145.
[20]
Cit. M. Hilger, From Savage to Nobleman,
p. 8.
[21]
Cfr. K. Nolley, The Representation of
Conquest. John Ford and the Hollywood Indian, 1939-1964 in in P. C. Rollins
e J. O’Connor (a cura di) Hollywood’s
Indian.
[22]
Cfr. M. Hilger, From Savage to Nobleman,
p. 5.
[23] Cfr. Giorgio Mariani, Il cinema western visto dagli Indiani.
Vendetta e violenza in Sentieri Selvaggi di John Ford e Indian Killer di
Sherman Alexie in Stefano Rosso (a cura di), Le frontiere del Far West. Forme di rappresentazione del grande mito americano, Milano, Shake Edizioni, 2008, pp. 57-77.
[24]
Cfr. K. Nolley, The Representation of
Conquest. John Ford and the Hollywood Indian, 1939-1964 in P. C. Rollins e
J. O’Connor (a cura di) Hollywood’s
Indian.
[25]
Cit. A. Aleiss, Making the white man’s
Indian…, p. 104.
[26] Cit. G. Mariani, Il cinema western visto dagli Indiani… in
S. Rosso (a cura di), Le frontiere del Far West, p. 64.
[27]
Cit. W. Churchill, Fantasies of the
master race, p. 190.
[28]
Cfr. A. Aleiss, Making the white man’s
Indian…, pp. 102-105.
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