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mercoledì 3 febbraio 2016

[RECENSIONE] The Revenant - Jerk Off Instructions



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In breve

Per chi non ha voglia di leggere l'intero post, mettiamola così: The Revenant è come un'auto lussuosa che in teoria potrebbe sfrecciare a 300 km/h, emozionare, esaltare, stupire chi ci siede dentro, ma che nei fatti si limita a camminare a 20 km/h su una strada sterrata, col motore ingolfato dalla tendenza del suo regista all'onanismo cinematografico e all'autocelebrazione ricercata ad ogni costo, dalla sua incapacità di mettersi a servizio della storia.
Se ne volete sapere di più, buona lettura.


Marionette e fantocci, non personaggi

La trama dell'ultimo film di Alejandro Gonzalez Inarritu è delle più classiche: uomo bianco, perdita dei propri cari, vendetta. Sia ben chiaro, la classicità della trama non è un difetto. In questo caso si tratta di uno di quegli archetipi narrativi estremamente potenti che sostengono da secoli le storie: questi archetipi possono essere declinati degnamente oppure no, l'opera di Inarritu appartiene al secondo gruppo.
Per metter su una storia del genere c'è bisogno di due cose: di personaggi e di un conflitto (che può essere morale, fisico, ideologico e così via). Se manca uno dei due la macchina narrativa non funziona a dovere.




Gran parte dei 156 minuti del film sono dedicati alla lotta del protagonista Hugh Glass (interpretato da Leonardo DiCaprio) contro una serie di avversità, per lo più naturali. Il problema è che manca la condizione necessaria per rendere questo conflitto in qualche modo interessante. Il personaggio di Hugh Glass è estremamente piatto, stereotipato, ma soprattutto privo di un qualsivoglia motivo d'empatia e di capacità di coinvolgimento del pubblico nelle sue vicende. Guardare The Revenant è come guardare una formica bruciare sotto il sole riflesso da una lenta d'ingrandimento: può divertire i primi minuti, dopodiché poiché della formica non ce ne importa più di tanto la cosa annoia e si preferisce passare ad altro. Inarritu non è mai capace (e su questo ci ritorneremo quando ci occuperemo della sua regia) di far entrare lo spettatore nella pelle di Hugh Glass, nella sua testa, nel suo animo. Ci prova con un po' di spiritualismo raffazzonato e spingendo sul sentimentalismo familiare, ma non ci riesce ancora una volta per l'estrema monodimensionalità del suo personaggio. Sceglie inoltre di creare un personaggio unicamente fisico, che parla pochissimo e costringe Leonardo DiCaprio nei panni forse più stretti della sua intera carriera. DiCaprio è probabilmente l'ultimo divo cinematografico (nel senso proprio del termine) in circolazione, in grado di convincere un pubblico di massa a vedere un film solo per la sua presenza, a prescindere dal personaggio che interpreterà (qualche anno fa riusciva a farlo anche Johnny Depp, oggi non più). DiCaprio è un attore istrionico e versatile, in grado di risollevarti da solo un film e metterne in ombra i difetti, che sa dare il meglio di sé quando affiancato da un buon dialoghista: cosa che è stata molto chiara a registi come Quentin Tarantino, Martin Scorsese, Steven Spielberg




Inarritu sceglie invece di far strisciare e grugnire DiCaprio per il 90% del film, finendo per depotenziarlo. Sia chiaro, DiCaprio dà il meglio di sé e ne esce promosso in una comunque buonissima prova attoriale, ma manca quell'unicità recitativa che emersa in altri film, ad esempio: il personaggio di Jordan Belfort in The Wolf of Wall Street, un film che comunque ha i suoi difetti, lascia quella sensazione che solo DiCaprio avrebbe potuto interpretarlo in quel modo, nessun altro. Proprio perché non è altro che un fantoccio, una marionetta, a servizio di un regista (e non della storia) che ha una concezione tutta personale del cinemaHugh Glass di The Revenant non dà minimamente quel senso di legame univoco all'attore che ne veste i panni nella misura in cui lo dà il già citato Jordan Belfort. 
Paradossalmente, rispetto al protagonista, risultano più sviluppati personaggi secondari come quelli interpretati da Tom Hardy e Will Poulter. Personaggi che comunque sono minati dai difetti sopra elencati.
Se il mondo dei bianchi è piatto e stereotipato, non lo è da meno quello dei Nativi con cui si confrontano. Meri strumenti per innescare le poche scene d'azione, la cui peculiarità umana, etnica e culturale non emerge né viene approfondita in nessun momento.




Wilderness senza epica 
Il concetto di wilderness è fondamentale nel cinema statunitense. Il regista messicano in The Revenant ha deciso di affrontare quello che è uno dei temi più significativi del cinema e della cultura statunitense: la frontiera. Già nell'Ottocento lo storico Frederick Jackson Turner sottolineò l'importanza della frontiera nella cultura americana: essendosi lo stato americano formatosi gradualmente, conquistando terre, superando sfide e spingendo la frontiera sempre più a ovest verso il Pacifico, Turner sosteneva che nel carattere del popolo americano si fosse realizzata una propensione al superare gli ostacoli, a spingersi sempre più in là, e una volta esaurita la terra da conquistare, l'espansione sarebbe continuata nell'ambito economico, scientifico, sociale. È una visione della storia americana che è forte ancora negli anni '60 con la teoria della Nuova Frontiera di John Fitzgerald Kennedy o negli anni '80 con Ronald Reagan. Questa teoria fa il paio con quella dottrina politica nata nell'Ottocento del Destino Manifesto, secondo cui gli Stati Uniti sono destinati a un ruolo eccezionale, caratterizzato dalla conquista e dalla diffusione della loro way of life, a partire dal west. Il cinema americano, in particolare nel genere western ma non solo, si è confrontato sin dagli albori con il tema della frontiera e della lotta con la wilderness, vale a dire con la sua essenza selvaggia e più pericolosa




Per grandi linee, in maniera parziale e con grande generalizzazione, possiamo dire che il cinema ha conosciuto principalmente tre modi per declinare il confronto dell'individuo con la wilderness:
- La trasformazione del selvaggio in civiltà, della wilderness in giardino terrestre. È la prospettiva che emerge nei primi anni '20 con i film del cosiddetto filone epic western, come I pionieri (The Covered Wagon, James Cruze, 1923) o Il cavallo d'acciaio (The Iron Horse, John Ford, 1924) e in centinaia di film da allora ad oggi.
- Il richiamo della wilderness, in cui emerge il fascino del selvaggio, che viene presentato come alternativo alla civiltà ma non in termini negativi, pur senza negarne il suo carattere letale. È la prospettiva ad esempio di Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson, Sidney Pollack, 1972) o di Into the Wild (Sean Penn, 2007).
- La resa di fronte alla wilderness, in cui l'uomo finisce schiacciato dalla sua forza insormontabile e misteriosa. L'esempio perfetto è La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982)
Ora se siete arrivati fin qui siete quel tipo di lettori che mi piacciono, dunque torniamo a The Revenant. Inarritu mette insieme questi tre tipi di approcci: Hugh Glass deve superare le sfide per compiere la sua giustizia, che anche se vendicativa è comunque effigie di civiltà (primo approccio); è un trapper che ha subito il fascino della vita dei Nativi e delle loro terre (secondo approccio); può ben poco contro quella terra selvaggia ed è più che altro in balia di essa (terzo approccio). Per questo film Inarritu ha disposto di un budget considerevole (135 milioni di dollari), degli spettacolari scenari naturali offerti dal Canada e dall'Argentina, dell'IMAX. 




La resa delle terre selvagge è indubbiamente spettacolare. La fotografia  di Emmanuel Lubezki e il lavoro dello scenografo Jack Fisk è notevole. Ed è questo probabilmente l'aspetto più riuscito della pellicola, ma purtroppo è solo un'enorme spettacolare cartolina. Perché qualsiasi sia il modo in cui i registi dell'ultimo secolo hanno deciso di declinare il rapporto tra i loro personaggi e la wilderness, l'elemento comune agli approcci è l'esistenza di una dialettica tra personaggio e ambiente in grado di coinvolgere lo spettatore e di giocare con il suo spettro emotivo. In The Revenant non essendoci un personaggio, ma come detto, una serie di marionette/fantocci incapaci di suscitare empatia, viene meno l'epica insita in questo rapporto dialettico. Fosse stata una presentazione in power point di un tour operator, sarebbe perfetto, ma The Revenant è fiction e senza epica la fiction è noia. Guardare The Revenant è come guardare Bayer Monaco vs Reggiana o Mike Tyson vs Dario Custagliola: probabilmente assisterete a bellissimi goal e bellissimi KO, ma non ci sarà nemmeno un briciolo di emozione, di divertimento, di mito.

Onanismo registico
Alla fine siamo arrivati alla regia, forse il punto più caldo della questione. Inarritu qui fa sentire tutta la sua personalità e il suo modo d'intendere il cinema. Campo lungo, campo lunghissimo, 360°, falsi piani sequenza, carrellate. Questo è il repertorio di Inarritu, che lo ripete all'infinito, senza sosta, con una macchina da presa in continuo movimento. Un repertorio limitato e in fin dei conti basilare che, come già fatto in Birdman, Inarritu sa "vendere" come vasto e innovativo. Chiariamoci, anche sapersi vendere a mio parere è una qualità, il problema è che non sempre va di pari passo con il produrre opere meritevoli. 




La regia di Inarritu ci mette poco a divenire invasiva, irritante, autocelebrativa, piaciona, inutilmente enfatica. Inarritu non concepisce l'idea di allentare di tanto in tanto la sua presenza, di lasciare lo spettatore dinanzi all'immagine nuda, senza la sua ingombrante partecipazione. È un autore che in nessun momento è disposto ad annullarsi a beneficio della storia, del ritmo, delle altre forze in campo, dello spettatore. 
Il risultato più eclatante di tale indisponibilità è quello di una regia che si "mangia" la sceneggiatura, rendendola nei fatti scialba: tutti i problemi già visti per i personaggi, l'assenza totale nella cura dei dialoghi, una trama priva di ritmo e schiacciata dall'esasperato estetismo, la mancanza di qualsiasi approfondimento tematico, buchi di sceneggiatura vistosi (in particolare nella scena chiave del film in cui Glass ferito resta in compagnia del figlio, di Fitzgerald e Bridger). 

Genere e solipsismo
C'è una cosa di cui sono convinto: il genere western sta con piccoli passi tornando a riaffacciarsi nel panorama cinematografico e nei prossimi dieci anni assisteremo a un piccolo ritorno di fiamma. Nulla di eclatante dal punto di vista quantitativo, sia ben chiaro, ma comunque significativo. The Revenant per me è un western, anche se mal riuscito: è un western evirato




Il regista, quando in molti gli hanno fatto notare di aver realizzato un western, con un po' di spocchia ha dichiarato che il suo film non lo è, perché il suo cinema è talmente vasto e grande che non può essere racchiuso in una categoria, in un genere ("andrebbe visto in un tempio", ha dichiarato). Che nel 2016 ci sia chi pensa ancora in questi termini dell'intrattenimento di "genere" è già di per sé una cosa assurda, segno di un artista che non sa e non vuole guardarsi intorno. Che poi lo faccia mentre realizza un film che è fortemente debitore per strutture, temi, ambientazioni al genere western (come abbiamo visto anche sopra) è quasi patetico. Perché questa premessa? Perché il film ha il suo unico momento di vita nelle scene finali, quando Inarritu dà alla sua creatura una parvenza d'identità, aderendo più strettamente a certi canoni del genere che tanto disprezza. L'idea che è lecito farsi è che Inarritu dell'intrattenimento di genere tema la lunga storia, la forza dei suoi meccanismi, l'eredità, teme che possa evidenziare i limiti di un regista che è in grado di vivere unicamente nel e del proprio solipsismo.  



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