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giovedì 14 gennaio 2016

[RECENSIONE] Ya ovvero come Recchioni da vecchio girerà con una benda sull’occhio



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Una nota personale


Come lettore mi sono spesso ritrovato fuori target.
Nel 2004-5, a 15 anni, mentre le librerie venivano travolte da letteratura Young Adults a seguito del successo di Harry Potter e della versione cinematografica del Signore degli Anelli - che di fatto ammorbidiva il romanzo rendendolo più appetibile all’ultima generazione - scoprivo l’esistenza di Irvine Welsh. Complice la
libreria di mia sorella, lessi uno dopo l’altro Il lercioCollaTolleranza ZeroTrainspottingEcstasy, trovandoci dentro tutto ciò che potessi desiderare a 15 anni. Welsh divenne il mio autore preferito, seguito da Bret Easton Ellis. Poi gli anni sono passati e alcuni limiti di quegli autori mi sono diventati più chiari, pur rimanendo intatto il fascino e l’affetto per le loro opere.


A 26 anni, cresciutello e anagraficamente adulto, improvvisamente mi ritrovo ancora una volta fuori target, conquistato da un libro destinato per lo più a lettori con dieci anni in meno a me. È una “storia semplice” (ma come insegna Sciascia, le storie semplici non sono mai tali) una gustosa rielaborazione di un genere (il fantasy) dalla produzione ipertrofica e spesso pedissequa. 

Un dialogo a stelle e strisce...

 (La copertina realizzata da Gipi)

“È la storia, non colui che la racconta”


“Perché è questo che fanno le storie quando sono buone: diventano sempre più grandi.”

Il primo è Stephen King (citazione da Il corpo e Il metodo di respirazione), il secondo è Roberto Recchioni, l’autore di Ya, al suo esordio come romanziere e navigato fumettista. Me lo sono immaginato così un dialogo tra i due. Un dialogo che tirando le somme è oltremodo fitto, stilisticamente e tematicamente. Recchioni ha uno stile "all’americana", una prosa felice che non può non ricordare King, il quale è senza dubbio il suo modello. E, andando a ritroso nel tempo, è vicino anche a colui che stando a Hemingway ha dato i natali alla letteratura americana moderna: Mark Twain, in particolare per la sua capacità di nascondere la complessità nella semplicità (su questo torneremo verso la fine). C’è Robert E. Howard e quella schiera di autori pulp dalla prosa meno nobile del suddetto, ma tutti accomunati da quella straordinaria capacità di bucare la pagina, di creare personaggi ben più spessi della carta su cui vivono, che da sé fanno la storia. E ancora, c’è Elmore Leonard: il Leonard dei racconti western, con i suoi dialoghi rapidi, sferzanti, capaci di disegnare psicologie articolate a partire dagli archetipi, dai topos, dalle maschere del genere. Tenete a mente questa parola, la ritroveremo più tardi: western

..."All'italiana"


"Una bocca larga dalle labbra carnose, atteggiata a un sorriso che era per metà di disprezzo, per metà di trionfo e per metà di divertimento. E se i conti non vi tornano è perché era una bocca davvero molto larga"

Un italiano quindi che gioca a fare l’americano? No. Recchioni ha avuto l’intuizione e la capacità di far sua una parte della tradizione letteraria statunitense (e anglofona) e allo stesso tempo togliersi dalle spalle la parte più pesante della sua eredità, più che mai ingombrante nel genere fantasy. Bravo nello svestire il fantasy delle sue vesti nordiche, di quel sostrato mitologico scandinavo che da Tolkien in poi lo sorregge, di quella tipica e inflazionata ambientazione da alto medioevo inglese. 
È invece un’ambientazione mediterranea, nei paesaggi, nelle colture, nei giochi, nei costumi, nelle fisionomie, nei nomi, nella
cultura. Squisitamente mediterranea è la cultura dell’eroismo. Manca l’eroe granitico, tutto d’un pezzo, l’eroismo spicciolo tanto nella morale quanto nell’azione. Esempi fantasy di questo tipo di eroismo sono alcuni personaggi di Tolkien e quella scuola fantasy a lui direttamente legata, dove il confitto tra il bene e il male è totale, non lascia dubbi sulle parti. Né a caratterizzare i personaggi vi è quell’anti-eroismo, che pur agli antipodi è visceralmente legato con un doppio binario all’eroismo a cui si oppone, in cui certo i confini sfumano ma c’è un giudizio morale che comunque sottintende l’azione e la lettura, non crolla la catalogazione tra bene e male, anzi l’autore la sfrutta ancor più che nel primo caso, per scandalizzare, per veicolare determinati tipi d'emozione. Il relativismo etico è come un ghoul, è vero che si ciba del cadavere del concetto di verità e dell’oggettivismo etico, ma in ogni caso non può fare a meno del suo concetto per esistere e definirsi. Questo ad esempio è il fantasy di Robert E. Howard, Karl E. Wagner o di George R. R. Martin. Quello di Ya, è invece un eroismo tipicamente italiano, di tipo “monicelliano”È un fantasy provinciale, su piccola scala, sia in senso geografico che nel territorio della morale: i protagonisti combattono battaglie che non gli appartengono, nutrono le fila di eserciti che non hanno scelto, non sono militanti nel conflitto eterno e in grande scala tra bene e male. I personaggi possono avere fascino e conquistare la simpatia del pubblico, ma non per questo sono moralmente a-conflittuali. Il Granduomo (l’idolo del giovane Stecco e protagonista di mille storie) ne è l’esempio perfetto: di fatto è un uomo che vive portando ragazzini a morire in battaglia, facendo leva sul desiderio di avventura di personalità non ancora formate e mature. Gli “eroi” come Stecco invece lo sono per caso, per ingenuità o loro malgrado: il loro eroismo è quello donchisciottiano, ingenuo, folle del Brancaleone, basato sulla farsa dell’eroismo; oppure sono dei novelli Oreste Jacovacci, di quelli che si ritrovano negli eventi perché tirati per le orecchie, che l’atto eroico non lo cercano e quando lo compiono lo fanno al grido di “io sono un vigliacco”.

Una benda sull'occhio


(John Ford, 1894-1973)

 "Ricordati questo, ragazzo, le storie non sono mai stupide. Le storie sono tutto quello che abbiamo. Senza di loro… noi siamo niente."

Dicevo prima, l’eroismo come farsa. La farsa è performance attoriale, è rappresentazione e alterazione della realtà. Ma la rappresentazione finisce per determinare la realtà, per crearla. E qui arriviamo al tema centrale del libro: l’importanza delle storie. E qui ritorniamo anche su quella parola che vi avevo detto di tenere a mente, western. Il ‘900 è stato il secolo in cui un paese, gli Stati Uniti d’America, ha realizzato una colonizzazione dell’immaginario collettivo e un imperialismo culturale come mai nessun altro paese nella storia aveva realizzato per mezzi e pervasività. Il western è stato il più grande racconto mitologico di questo paese, in grado di porsi come elemento culturale di mediazione tra il suo pubblico e l’esperienza della realtà, quale strumento di costruzione dell’identità collettive e individuali. Il western è stato inoltre il più grande laboratorio narrativo del ‘900John Ford, il più influente regista western della storia, ha operato sempre con una precisa consapevolezza della natura di questo genere cinematografco. E John Ford è l’ultimo dei grandi interlocutori di Recchioni. Per Ford il mito è il collante della comunità occidentale e ciò è quanto più vero alla frontiera (concetto assai versatile nella cultura americana), dove la comunità è un tutto organico [1]: un organismo in continuo movimento, che espande l’individuo ma che non è mai rigida, mai istituzionalizzata. Ford con la sua filmografia decide di assumersi l’unico ruolo che spetta al narratore contemporaneo: quello di creatore di mito. Decide di contribuire in prima persona attraverso il racconto a quel flusso mitopoietico che è la vera grande forza motrice e identitaria dell’Occidente. Recchioni è sulla stessa linea. La trama del mondo di Ya è fatta di mille fili, mille storie – vere, false, esagerate non importa – e ogni elemento non è altro che uno strumento al servizio del Mito. Tutto cede dinanzi al racconto mitico, l’etica e la verità inclusa, e in Ya come ne Il massacro di Fort Apache (1948), come in L’uomo che uccise Liberty Valance (1962), vale il motto: “Quando la leggenda diventa la realtà, stampa la leggenda!


Di trappole, sfide e racconti al focolare
“Credo che stia copiando. Questo discorso l’ho già sentito da qualche parte…"

"Stecco conosce un sacco di vecchie storie… e le sa raccontare”

Quando ho letto questo dialogo me lo sono immaginato come la risposta indiretta dell’autore alla più scontata delle critiche che gli viene mossa ad ogni sua nuova opera: quella di essere un autore derivativo, non originale, dalle dubbie capacità. La prima accusa è vera. Fatto sta che non ci sia nulla di male, lì dove derivativo vuol dire semplicemente che l’autore ha i suoi punti di riferimento, i suoi modelli, precisi concetti filosofici e la volontà di instaurare un dialogo virtuale con chi l’ha preceduto. In questo senso ogni autore che non viva di solipsismo, dedito alla sola propria opera, è giustamente e fortunatamente derivativo. Che come autore non sia originale è un’accusa ampiamente discutibile. Che sia incapace lo escluderei del tutto. Ne ha dato prova in questo piccolo romanzo. Piccolo in senso letterale: poche pagine e caratteri grandicelli. Recchioni negli ultimi anni ha abbassato anagraficamente parlando il suo pubblico di riferimento, prima con Orfani, poi con Ya, il prossimo anno con 4HOODS che sarà un fumetto per bambini. Quella di interagire con un pubblico giovane è un’operazione delicata, che facilmente può scivolare nel ridicolo. Il pericolo è immaginarsi l’adolescente medio con un cellulare in una mano e il libro nell’altra, privo di senso critico e di gusto, isolato in una campana di vetro o peggio ancora in una dimensione spaziotemporale che corrisponde a quella della gioventù dell'autore, con il quale è necessario una prudenza
tematica. Recchioni è riuscito a metter su una storia dotata di notevole capacità di intrattenimento (su tutti, ad esempio i capitoli sulla briscola selvaggia), di una varietà tematica assai vasta (sesso, morte, riscatto sociale e personale e tanto altro), condendola di una riflessione sull’etica, sul mito, sull’eroismo, complessa, per nulla piatta o banale, mascherata dietro un’apparente semplicità. Ciò è possibile grazie alla sua prosa scorrevole, che sembra (sembra) non prendersi sul serio e venir giù come un racconto al focolare. C’è in ciò tutta la sua capacità di non invadere la storia come autore, pur conservando la sua cifra stilistica e non danneggiando il gusto della lettura: capacità che ha maturato in tanti anni di sceneggiature fumettistiche, dove è abituato a lasciar parlare le immagini, su carta nei fumetti, nella mente dei lettori in YAimmagini che ha saputo scolpire in punta di piedi, quasi in sordina. Prevale la storia, non chi la racconta.
Anche la struttura narrativa, assai simile a quella che l’autore ha già usato in Orfani, è particolarmente efficace nel creare suspense e curiosità. Attraverso salti temporali, avanti e indietro nella storia, Recchioni mette in atto quella nozione hitchcockiana di suspense, creando un divario a favore del lettore tra le conoscenze di questo e quelle del personaggio sulla scena[2].
L’unico appunto che mi sento di muovergli è quello di non essersi concesso qualche pagina in più per approfondire il rapporto tra Stecco e il Granduomo (in particolare nel finale) e il personaggio dello Iettatore che, appena abbozzato, soffre troppo l’accostamento ai due riuscitissimi personaggi di Stecco e Marta la Brutta. Appunto che però ha un peso assai relativo, essendo questo solo il primo capitolo di una trilogia.






[1] Cit. Toni D’Angela, Frontiere. Osservazioni sul western di John Ford, in T. D'Angela (a cura di) Il cinema western. Da Griffith a Peckinpah, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2004.p. 23-24.
[2] Cfr. Francois Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Milano, Il Saggiatore, 2009.

(Le immagini relative a Ya sono tratte dal blog di Roberto Recchioni. Sul blog è possibile leggere anche alcuni estratti del romanzo)



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